domenica 15 luglio 2007

la Macchina Mondiale n. 2

Questo che vi proponiamo è il secondo numero del giornale “la Macchina Mondiale” dei Giovani Comunisti di Urbino.
Così, dopo la riuscita esperienza del primo numero di Ottobre siamo riusciti nuovamente a raccogliere e selezionare una quantità sufficiente di articoli desiderosi più che mai di essere letti, riletti e su cui riflettere, discutere. Non abbiamo potuto scrivere su tutte le tematiche e le problematiche che la politica locale, nazionale e quella internazionale richiederebbero ( e che di certo meriterebbero più attenzione e spazio), dal momento che il nostro non è un giornale fatto di articoli e contributi. Anzi, semmai è proprio il contrario: sono cioè gli articoli e i contributi (che vengono appassionatamente ed appositamente elaborati per questo giornale) che per l’appunto costituiscono “la Macchina Mondiale”. In questo modo, se si vuole vedere la cosa solamente da un lato positivo, risulta chiaramente quanto sia spontaneo ( il che non significa per forza che sia frettolosamente e malamente organizzato ) lo spirito che da vita al giornale e che ne determina lo sviluppo fino alle sue ultime fasi di impaginazione e stampa. L’ultima vera fase però, che giustifica tutte quelle che la precedono, a cominciare cioè da una prima generica volontà di fare cultura e informazione, è quella di farlo arrivare sotto i vostri occhi. Sì, perché per “ la Macchina Mondiale” l’obbiettivo principale siete voi lettori!
L’assoluta inesistenza di limitazioni, di eccessive ingerenze esterne ( da parte del Partito ) e di legami che potrebbero risultarci troppo stretti determina sì, da una parte, la nostra piena libertà ma, dall’altra anche molte difficoltà - specie di tipo meramente materiale - che dobbiamo affrontare per portare a compimento questa come altre iniziative. Mi riferisco ai rapporti che intercorrono tra noi Giovani Comunisti e il Partito e la nostra autonomia - a cui comunque teniamo - rispetto ad esso; autonomia che, a scanso di equivoci, può in ogni caso combinarsi con la sintonia ideologica e politica che abbiamo in comune. Ad ogni buon conto, nonostante le difficoltà, siamo ben felici di poter distribuire gratuitamente “la Macchina Mondiale”, perchè venga letto da più persone possibile.

Dimostrando ancora una volta quanto sia importante anche fare ( nel senso più nobile del termine ) e non solo dire ( nel senso peggiore del termine ), vi presentiamo questo secondo numero sperando che possiate trovarci tanto di interessante e che ci aiuti a maturare uno spirito critico, per affrontare così più armati e meglio equipaggiati la disinformazione dilagante. Quella programmata dall’ ideologia egemone: l’ideologia delle classi dominanti.
Buona lettura…
L. P.


SOMMARIO:

Iraq, diritto di resistenza.
di Lorenzo Della Chiara

Potere e rivoluzione
di Lorenzo Della Chiara

Note sul Vietnam:
I. La guerra del Vietnam
II. La marcia per uscire dal sottosviluppo e l’edificazione del socialismo in Vietnam nel dopoguerra.

di Leonardo Pegoraro

Italia mia, benché l’ parlar sia indarno leggendo Petrarca: l’exercitus proprius e il dualismo etica-politica.
di Emiliano Alessandroni

“I cavalieri”.
Per una rilettura attuale di Aristofane.

di Nicola Serafini

Antigone.
di Nicola Serafini


IRAQ, DIRITTO DI RESISTENZA

Con riferimento alle sciagurate vicende irakene, e mediorientali in generale, i media ed i mezzi di comunicazione di massa hanno presentato gli accadimenti ai cittadini/telespettatori/consumatori in maniera surrettizia e quantomeno faziosa (ad essere indulgenti) : a loro detta si sarebbe cioè determinato in quel paese uno scontro tra due potenze : l’esercito dei liberatori, civili ed urbani esportatori di democrazia da un lato ed un manipolo di esagitati, barbari e reticenti ad apprendere i valori occidentali dall’altro ( questo secondo i tg e i quotidiani più sfacciatamente filogovernativi ) : oppure secondo la versione più temperata, si sarebbe posta in essere una mera spirale di violenza, individuale attorno al binomio guerra/terrorismo. In realtà si è perso di vista quello che il cuore del problema, che se fosse ben individuato ci apparirebbe molto più drammatico, però secondo un altro punto di vista ed un’altra categoria concettuale: cioè il fatto che il 20 marzo 2003 gli Stati Uniti hanno deciso arbitrariamente ed unilateralmente ( con il parere contrario degli principali stati europei, dell’ Onu, della stragrande maggioranza della popolazione e dell’umanità) di aggredire uno stato sovrano, che logorato a causa di un governo tirannico e dispotico da un lato e da un decennale embargo dall’altro, si è ritrovato invaso per essere depredato delle proprie ricchezze ( leggi petrolio ) . In questo panorama già avvilente si sono innestati ulteriori elementi forieri di tensione : multinazionali e aziende americane che si insediavano in Iraq congiuntamente all’esercito ; uomini d’affari e businnessmen che incitavano il governo americano a procedere nel saccheggio sapendo di trovare sostanziosi beni ( il cui ricavato sarebbe servito in parte a foraggiare la campagna elettorale repubblicana). Mercenari al soldo della CIA ( i sedicenti “ostaggi italiani” ), soldati ed eserciti invasori di ulteriori paesi, prezzolati e lautamente remunerati dai rispettivi stati, proni al volere degli USA, impiegati per completare la guerra di rapina e magari ottenere qualche spicchio della torta del businnes bellico (descritti invece dai mass media come operatori di pace, pacificatori o con l’espressione ambigua “impiegati nella ricostruzione).
A scompaginare però questo rassicurante quadretto degno di un idillio, ci ha pensato il popolo irakeno, presentato come gli indiani nei film western americani, che ha dato vita ad una resistenza crescente che usa o meno le armi e che utilizza forme di lotta quali il sabotaggio o la guerriglia.
Vittime di questa resistenza sono stati anche i militari invasori italiani, epitetati come “gli eroi di Nassirya”, il cui episodio è stato derubricato sotto la categoria di “terrorismo”. Per dovere di cronaca si deve fare menzione che i militari italiani ( gli eroi pacificatori ) contribuivano “alla lotta al terrorismo”, ed “alla ricostruzione del paese” cospargendo le case dei civili irakeni di benzina che poi bruciavano successivamente ( vedi “Il Manifesto” 10 Settembre 2004 ).
Ciò detto è bene ricordare la disciplina del diritto internazionale che riconosce e sancisce l’autodeterminazione dei popoli ed il loro corrispettivo diritto alla resistenza in caso di invasione o aggressione. Viene inoltre esplicitamente tollerato il ricorso alle armi nel solo caso di guerra di difesa. Oltretutto la resistenza popolare irakena è costituita per gran parte non da gruppi religiosi e fondamentalisti, ma dagli stessi cittadini e, dall’inizio della guerra ad oggi, sono morti circa 650.000 civili.
Sono stati colpiti bersagli e persone che nulla avevano a che fare con gli eserciti invasori come i giornalisti francesi, le pacifiste italiane, i free-lance, le organizzazioni non governative, la Croce Rossa, e questi attentati vigliacchi hanno gettato discredito sulla resistenza irakena, che è cosa ben diversa però dal terrorismo. L’appello e le adesioni alla resistenza irakena erano state, fin dall’inizio del conflitto, firmate e sottoscritte non tanto e non solo da un gruppuscolo di No Global, ma soprattutto da prestigiosi accademici, noti docenti e numerosi magistrati: basti ricordare tra i tanti, i nomi di Aldo Bernardini, ordinario di diritto internazionale, Domenico Losurdo, ordinario di storia della filosofia, Costanzo Preve, ordinario di dottrina dello stato e filosofia del diritto, Giuseppe Bronzini, giudice e magistrato del lavoro.
Sono tuttavia rassegnato al fatto che l’opinione pubblica mondiale, i benpensanti ed i politicamente corretti, in tempi di pensiero unico, avezzi alle trasmissioni Vespa e Costanzo ed ai programmi di Maria De Filippi e Anna La Rosa, etichetteranno queste tesi come “sovversive”. Evidentemente, come in “1984” di Gorge Orwell, anche i mezzi di informazione hanno plasmato molto bene l’immaginario collettivo.
Probabilmente siamo arrivati ad un punto nel quale il nostro stato non è poi così diverso da quello descritto dal romanzo dello scrittore inglese.

Lorenzo Della Chiara






POTERE E RIVOLUZIONE


Non è razionale pensare di legittimare un’istituzione per il solo fatto che esiste. È necessario perciò individuare il presupposto giuridico, sociale, politico che la legittima e la giustifica. Altrimenti ci troveremmo a dire “nulla quaestio” di fronte al potere temporale di Bonifacio VIII, al colonialismo dei conquistadores spagnoli nel Sudamerica del XVI secolo e al regime nazionalsocialista tedesco.
Per secoli il potere trovavo legittimazione dall’alto, attraverso un’investitura sacrale e papalina dell’imperatore, il quale a sua volta nominava i nobili che avrebbero poi governato i feudi. Vi era perciò un’unione di trono e di altare, di potere politico e di potere spirituale, a dimostrazione della tesi che la religione è “instrumentum regni”. Così di seguito col principato. Solo le signorie rinascimentali sembravano aver invertito l’ordine della legittimazione governativa. Erano cioè i cittadini a scegliere chi avrebbe governato e rappresentato le istituzioni. Ma la nozione di elettore non si estendeva a tutti e non era di per se stessa universale: solo i nobili ed i possidenti potevano farlo, i primi in quanto espressione di un ceto superiore che beneficiava di immunità, esenzioni e privilegi ed i secondi in quanto espressione del ceto produttivo, finanziario e commerciale.
Si dovrebbe addirittura attendere il 1789 e la Rivoluzione Francese per abolire i privilegi feudali, estendere a tutti il diritto di voto, legittimare il potere dal basso, cioè dal popolo, e non più dall’alto e riuscire a scindere il “borgeois” dal “citayen”cioè l’individuo privato dal soggetto pubblico che dispone di diritti di cittadinanza.
Ma apparentemente la Rivoluzione è un atto illegittimo, nella prospettiva dello stretto legalitarismo istituzionale. Come risolvere allora l’apparente epoca? Come giustificare il presunto corto circuito logico?
Il potere è inalienabile, secondo la definizione di Hobbes, tende cioè a conservare se stesso. Tende anche a giustificare se stesso, attraverso la propria capacità burocratica, amministrativa e legislativa. Non a caso il potere richiama sempre, con paziente costanza, al rispetto del principio della legalità, al rispetto delle leggi che sono espressione del potere stesso. Ma la legalità se non trova appoggio sulla legittimità, cioè sulla giustificazione delle istituzioni, non ha valore. Da qui nasce il principio dello “jus resistaentiae” teorizzato dai giusnaturalisti e dagli illuministi, divenuto poi diritto di resistenza e disobbedienza civile. Le leggi per essere valide e rispettate devono discendere da un potere legittimo, ed anche qualora provenissero da un’istituzione legittimata non possono venire meno ai principi fondamentali della comunità. È questa la ragione della presenza, nelle moderne liberaldemocrazie costituzionali, delle Corti Costituzionali. La rivoluzione perciò ( quella inglese del 1640, quella americana del 1776, quella francese del 1789, quella russa del 1917, quella cinese del 1920) trovano dunque giustificazione filosofica, sociale e politica nel sostegno popolare, in quanto detentore della sovranità, che può delegare il potere, ma può ben anche revocarlo. Si risolve così la dicotomia legalità/disobbedienza e potere costituito/rivoluzione.
Già Lucano diceva nel “Bellum Civile”: “canto il delitto divenuto legge” riferendosi al colpo di stato compiuto da Giulio Cesare attraverso il sostegno dell’esercito.

Lorenzo Della Chiara




NOTE SUL VIETNAM


I. La guerra del Vietnam


Il “risveglio dei popoli” e i connessi conflitti anticolonialisti e indipendentisti che dilagarono in Africa ed in Asia già negli anni venti (come le rivolte sanguinose in Siria nel 1925 ed in Marocco nel 1921), e che costituirono i germi della lotta di liberazione, ben più sistematica, prorompente nel secondo dopoguerra, segnarono improrogabilmente l’inizio della crisi dell’impero coloniale europeo, statunitense e giapponese.



Figura 1. Ho Chi Minh, pseudonimo di Nguyen Tat Thanh (Kim Lien 1890 - Hanoi 1969)


Il fenomeno si può spiegare in larga misura con la presa di coscienza collettiva da parte dei popoli colonizzati della propria condizione di schiavi assoggettati al padrone occidentale. I fattori che contribuirono a questo “risveglio” sono molteplici, ma lo possiamo comprendere fino in fondo solo se si considera la portata decisiva che ebbe il grande messaggio d’emancipazione della rivoluzione d’ottobre sui popoli oppressi. Lenin infatti si espresse così coi partecipanti al II Congresso delle organizzazioni comuniste dei popoli dell’Oriente svoltosi a Mosca nel 1919: “Ciò che ha fatto l’esercito rosso, la sua lotta e la storia della sua vittoria avranno, penso, un’importanza enorme, universale, per tutti i popoli dell’Oriente. Esso mostrerà a questi popoli che per quanto essi siano deboli, per quanto sembri invincibile la potenza degli oppressori europei, che impiegano nella lotta tutte le meraviglie della tecnica e dell’arte militare, la guerra rivoluzionaria condotta dai popoli oppressi, quando sa veramente scuotere dal torpore milioni di lavoratori e di sfruttati, cela in sé tante possibilità, tali prodigi, da rendere oggi pienamente possibile la liberazione dei popoli dell’Oriente non soltanto dal punto di vista delle prospettive della rivoluzione internazionale, ma anche dal punto di vista dell’esperienza militare diretta, acquisita in Asia, in Siberia dalla repubblica sovietica, che ha subito l’invasione militare di tutti i più potenti paesi imperialistici” (1).
Fu soprattutto in Cina ed in Estremo oriente, che la lezione di Lenin ebbe largo seguito, tanto che il suo celebre opuscolo L’imperialismo fase suprema del capitalismo (1917) divenne la guida politica che saldò in molti paesi la lotta rivoluzionaria con quella nazionale e anticoloniale. Proprio in questa area del pianeta e in particolare , volendo in questo articolo trattare del Vietnam, nella penisola indocinese colonizzata dai francesi, si affermò la parola d’ordine, quasi utopica per quell’epoca, della piena indipendenza e su di essa, dopo aver superato parzialmente la divergenza all’interno del movimento indipendentista tra i sostenitori, per così dire, della priorità nazionale e i sostenitori di quella sociale (si supererà solo nel 1941 con la fondazione del Vietminh e la dissoluzione delle formazioni politiche nazionaliste di base borghese), Ho Chi Minh, incaricato dall’Internazionale di fondere le diverse correnti di matrice comunista del paese, il 6 gennaio del 1930 diede vita al Partito comunista indocinese, che raccolse fin dalla sua creazione vasti consensi tra le masse di tutta la penisola.
Nel 1945 Ho Chi Minh proclamò l’indipendenza del Vietnam e ,nel 1946, dopo il suo mancato riconoscimento, iniziò il conflitto armato. All’indomani dello scoppio di quella che fu una delle ultime guerre coloniali, gli Stati Uniti si impegnarono notevolmente ad appoggiare la Francia contro le forze di liberazione vietnamite; questa, interessata a difendere quello che restava del suo impero coloniale, i primi, secondo la logica della guerra fredda, per il timore che anche il sud est asiatico passasse al campo comunista. Nonostante gli USA fornissero ai francesi l’80% dei mezzi militari e sostenessero circa i tre quarti del loro sforzo finanziario, nonostante la superiorità numerica (230 000 soldati francesi contro i 125 000 dell’esercito comunista) fosse rilevante e sebbene Eisenhower, il presidente repubblicano allora in carica nel paese guida del campo capitalista, facesse inviare non solo altri bombardieri , ma anche una schiera di duecento tecnici, il comando francese non riuscì a contenere i partigiani vietnamiti e fu costretto alla difensiva e poi all’ultima decisiva sconfitta, nel 1954, con la battaglia di Dien Bien Phu.
La Conferenza di Ginevra, che si tenne lo stesso anno, stabilì la suddivisione della penisola indocinese in tre Stati indipendenti: Laos, Cambogia e Vietnam. L’accordo di Ginevra decise anche la partizione “temporanea” del Vietnam in due zone lungo il 17° parallelo: al nord venne riconosciuta la Repubblica popolare retta dal Partito comunista, con capitale Hanoi, mentre al sud si era insediato un governo fantoccio, con capitale Saigon, guidato da Diem e controllato dagli USA, che erano subentrati alla Francia sconfitta. Inoltre prevedeva la preparazione di elezioni politiche generali per il 1956, mediante le quali le due zone sarebbero state riunite sotto un governo espresso dalla volontà popolare. Ma Eisenhower si rifiutò di firmare questi accordi ritenendosi libero di inviare appoggi al dittatore cattolico (in un paese a maggioranza buddista) e anticomunista Diem, capo del governo sudvietnamita, e impedì che si tenessero le elezioni democratiche, considerando l’accordo una disastrosa concessione al comunismo. Ufficialmente il governo degli USA, avvalendosi dei suoi potenti mezzi di comunicazione, affermò, manipolando a suo piacimento l’opinione pubblica mondiale, che in Vietnam non esistevano le condizioni per tenere libere elezioni. All’insegna della retorica e dell’ipocrisia. Infatti lo stesso Presidente americano, ben conscio della vera situazione del paese, si sfogò più sinceramente nel suo diario. Scrisse: “Se, nel 1956, fossero state tenute le elezioni, l’80% dei voti sarebbe andato ad Ho Chi Minh”. Questa fu un delle tante schiaccianti dimostrazioni, come provano anche numerose altre occasioni, di quanto gli USA tenessero (e tengano tuttora) a quei principi democratici per cui dicevano (e dicono) di combattere, e di quanto non si facessero (e non si facciano) alcuno scrupolo di impugnare l’arma della disinformazione, metodicamente programmata, come mezzo politico per ottenere legittimazione e consenso (o tutt’al più indifferenza) dalle masse popolari.
Così Eisenhower, mentre da una parte concedeva generosi finanziamenti al sud del paese, dall’altra aveva già attivato la CIA ai danni del nord Vietnam per azioni terroristiche, come l’inserimento di sostanze esplosive nella benzina degli autobus, e operazioni di “sabotaggio”, come la pubblicazione su vasta scala di almanacchi contenenti predizioni catastrofiche per Ho Chi Minh e favorevoli per Diem; dando vita ad una contrapposizione da cui si sarebbe originata una guerra (mai dichiarata) che avrebbe insanguinato il paese fino al 1975.
Nonostante nel 1961, nel suo discorso di addio alla presidenza, Eisenhower, in uno sprazzo di franchezza, affermasse che “ c’è una potente lobby che include le alte cariche delle forze armate e gli esponenti del mondo industriale legati alle commesse del Ministero della Difesa; questa potente lobby mira a conquistare una totale influenza nella vita politica americana” il suo successore Kennedy non solo ignorò profondamente queste parole, ma inaugurò l’inizio del suo mandato presidenziale con la violazione degli accordi di Ginevra che limitavano il numero di militari stranieri nella regione. Affermando che il governo di Diem, accusato dallo stesso ambasciatore americano sul posto di spietatezza e inettitudine, era invece “straordinariamente stabile”, e dunque poteva ancora godere dell’appoggio statunitense. In realtà Diem, non potendo contare sul supporto di un vero partito politico, si appoggiava su organizzazioni semiclandestine e di carattere malavitoso; oltre che sui membri della sua numerosa famiglia ai quali erano stati affidati posti chiave in tutti i settori della vita economica, nelle cariche militari e nelle istituzioni dello Stato. Oltre a ciò, egli, proteggendo la minoranza cattolica in un paese a maggioranza buddista, diede luogo a scontri, come quando, nel 1963, impose incongrue restrizioni ad una manifestazione religiosa che aveva una particolare importanza nella vita collettiva del paese. I leader buddisti si videro così costretti a dover sfidare le proibizioni e, mentre da una parte l’esercito reprimeva nel sangue gli insorti, dall’altra iniziarono i suicidi dimostrativi: alcuni monaci buddisti si diedero fuoco in pubblico, provocando un’ondata di orrore. Come si giustificò il governo sudvietnamita di fronte a tali atrocità? Basti ricordare le dichiarazioni di Madame Nhu, moglie di Diem, nelle quali si diceva disposta a favorire i “barbecue” offrendo combustibile e fiammiferi, per capire in quale sciagurata situazione versasse il paese. Una situazione che indusse parte dell’amministrazione americana, questa volta sotto la presidenza Johnson (Kennedy fu assassinato nel 1963) , a favorire un colpo di stato, che nel 1965 portò al potere Thieu. Egli diede presto prova di non essere più efficiente del suo predecessore: continuarono i suicidi dimostrativi, i ribelli furono incarcerati o uccisi, le dimostrazioni vietate e le città insicure presidiate dalle truppe dell’esercito. Infine, quando successivamente si decise di tenere le elezioni “democratiche” per il governo sudvitnamita, queste si rivelarono una vera e propria farsa: per quanto Thieu si presentasse come l’unico candidato effettivo, i brogli furono di proporzioni colossali. Migliaia di voti a lui favorevoli vennero immessi nelle urne dopo che la votazione si era conclusa e coloro che lanciarono accuse di frode furono immediatamente imprigionati.
Intanto, sul piano militare, l’offensiva sudvietnamita/americana aveva già messo in moto una escalation che si rivelò inarrestabile, toccando il punto più alto nel 1969 con 543 000 soldati statunitensi impiegati sul posto, i quali, aiutati soprattutto dai bombardamenti massicci dell’ingente aviazione (i B-52), colpivano indiscriminatamente obbiettivi civili e militari, suscitando proteste in tutto il mondo. Queste ultime si intensificarono negli USA a fronte dell’accrescimento della leva militare imposto dal governo, che portò, nel 1968, 40 000 uomini a rifiutare il servizio militare, e indussero il governo ad emanare una legge che punisse l’atto di bruciare le cartoline del richiamo, simboleggiante la loro determinazione a non andare in Vietnam, con una multa di 5000 dollari e cinque anni di prigione.

Figura 2. Giap, soprannome di Vô Nguyen (An Ka, Annam 1912), generale vietnamita e ministro della Difesa (1945-1980)

Sul fronte opposto invece, alla guida dell’esercito vietnamita comunista, si era distinto, già a partire dalla guerra contro la Francia, il generale Giap , che, “armato del suo popolo”, aveva elaborato la tesi lungimirante ed in ultima analisi vincente secondo la quale solo con una guerra di lunga durata, in grado di mobilitare tutta la popolazione, si sarebbe potuto sconfiggere un nemico superiore sul piano tecnologico ed economico. Giap passerà così alla storia come il più grande avversario militare dell’imperialismo bellicista (2). Quello politico fu invece Ho Chi Minh, il quale, con una politica di rigorosa equidistanza dai due giganti del comunismo mondiale, URSS e Cina, in conflitto tra loro, riuscì ammirevolmente ad ottenere il sostegno politico e militare di entrambi, in una guerra di liberazione che nessuno dei due inizialmente caldeggiava. “Senza quel sostegno, unitamente a quello di tutto il campo socialista e del movimento comunista mondiale, il Vietnam da solo non ce l’avrebbe fatta né avrebbe potuto diventare il paese trainante di una eroica lotta antimperialista che ha alimentato gli ideali, la fiducia e la speranza, non solo dei movimenti di liberazione, ma anche quella degli operai e degli studenti protagonisti, in questa parte del mondo, dei grandi movimenti sociali e politici degli anni ‘60/’70” (3).


Concludendo, è bene ricordare che l’evento che giustificò senza riserve il massiccio aumento del corpo di spedizione americano fu senza dubbio l’incidente del Golfo del Tonchino del 1964 ( uno scontro armato fra una torpediniera americana e navi vietnamite), a cui seguì la Risoluzione per il Golfo del Tonchino, la quale autorizzava il Presidente a “prendere tutte le misure necessarie per respingere qualsiasi attacco armato contro le forze degli Stati Uniti”. Questo falso pretesto, ovviamente passato ufficialmente come vero, trovò la sua reale natura solo vent’anni dopo la fine della guerra, quando McNamara, braccio destro di Kennedy e iniziatore dell’offensiva fascista contro il Vietnam, in un incontro ad Hanoi col generale Giap, confessò “che gli americani si erano inventati tutto e che fu la CIA ad organizzare la provocazione del Golfo del Tonchino” (4).
Mentre l’evento che dimostrò che gli USA non avrebbero mai potuto vincere la guerra si presentò nel 1968 con l’offensiva del Tet (il capodanno vietnamita), la quale si concretizzò in un attacco simultaneo alle piazzeforti di tutte le maggiori città del sud, non esclusa la stessa Saigon. Fu così che, nonostante il generale Westmoreland, capo delle truppe americane in Vietnam, chiedeva altri 200 000 uomini per poter vincere il conflitto, Johnson annunciò che avrebbe fatto sospendere i bombardamenti e avrebbe cercato di risolvere il problema sul piano diplomatico.
In realtà i bombardamenti ripresero nei primi anni settanta sotto la presidenza Nixon e la guerra si concluse solo nel 1975 con la caduta del governo del sud e la presa della capitale Saigon, ribattezzata poi Ho Chi Minh (egli si era spento già nel 1969 guadagnandosi comunque l’immortalità come grande eroe partigiano). A tal proposito sono memorabili le immagini pervenuteci dei marines sconfitti e umiliati che si aggrappano in maniera caotica e disperata agli elicotteri in fuga dal tetto dell’ambasciata americana. In quell’anno il Vietnam venne finalmente riunificato dai partigiani vietnamiti sotto la capitale Hanoi.
Insegnando al mondo intero che non sono merci barattabili né l’indipendenza né la libertà.


NOTE


(1) da Opere, Lenin, 1967, pp. 130-140.
(2) Oggi, a 95 anni, Giap, riconosciuto unanimemente anche come un poeta, un umanista, un’artista, continua a battersi per il miglioramento delle condizioni di vita e contro la corruzione nel suo paese liberato.
(3) da Dalla vittoria del Vietnam una spinta antimperialista di Sergio Ricaldone su L’ernesto del 2/2000
(4) ibidem



II. La marcia per uscire dal sottosviluppo e l’edificazione del socialismo in Vietnam nel dopoguerra

“La nostra politica attuale è di porre dei limiti al capitalismo, non di distruggerlo” (Mao Tse-Tung)

La guerra in Vietnam costò, secondo i calcoli americani, più di 7 300 000 vittime tra morti e feriti (in larghissima maggioranza civili). Gli USA persero 60 000 soldati e quasi 100 000 furono i feriti e i mutilati. Dire però che quella guerra durata trent’anni fosse finita nel 1975 sarebbe mistificare la realtà. Sì, è vero che non sarebbero più scesi dal cielo fiumi di sostanze chimiche come il famigerato napalm, ovvero l’“Agente Orange” contenente diossina, utilizzato nella misura di 45 milioni di litri, ma i suoi effetti avrebbero continuato a segnare irrimediabilmente fino a oggi il territorio bruciato, la giungla defogliata e la popolazione, causando una stima dai 2 fino ai 4 milioni di vittime. Ossia persone che hanno sofferto “di difetti dalla nascita, di cloracne, di morbo di Hodgkin’s, di cancro, di spina bifida, di sarcoma dei tessuti molli” (1). Come è anche vero che non sarebbero più cadute le bombe, ma avrebbero continuato ad esplodere quelle disseminate a centinaia di migliaia sulle strade, sui sentieri, sui campi. Nella loro furia devastatrice gli americani non conobbero limiti: l’aggressione fascista del governo statunitense sganciò contro la resistenza partigiana vietnamita “oltre un milione di tonnellate di bombe, una quantità pari a tutte le bombe che esplosero su tutti i fronti nel corso degli anni della seconda guerra mondiale” (2). A cui si deve aggiungere anche l’uso abbietto della tortura, come prova il “ Kubark Counterintelligence Interrogation”, ovvero il manuale di interrogatorio “pesante” utilizzato in Vietnam e poi in America Latina (3), il quale fece da guida nell’attuazione del cosiddetto programma Phoenix (4).
Fatte queste premesse, doverose se si vuole capire la situazione tragica in cui versava il paese e le sue disastrose conseguenze, credo che ora sia giunto il momento di occuparsi di quello che fu il dopoguerra e, in particolare, l’edificazione del socialismo in Vietnam. Come giustamente vuole la prassi delle esperienze socialiste di tutto il novecento, si procedette nell’immediato alla distribuzione estremamente egualitaria delle terre e dei capitali industriali e nel contempo si investì sull’attuazione di un efficiente servizio sanitario e sul diritto di usufruirne gratuitamente, e sull’esigenza di alfabetizzare la popolazione (privata da decenni del diritto all’istruzione gratuita e generalizzata) senza alcuna distinzione di classe. Si concretizzò insomma quel principio socialista indiscutibilmente positivo espresso dall’efficace slogan coniato dal Presidente Fidel Castro: “non un solo bambino senza un insegnante, non un solo uomo senza un dottore”.
Ma è stata la strada che il Vietnam ha seguito successivamente e che prosegue tuttora a suscitare (ad esempio da parte della Sinistra Europea e di molti comunisti) non solo riserve e dubbi, che ritengo legittimi, anzi doverosi, ma addirittura, in molti casi, persino pesanti e infondate critiche, fino ad arrivare a semplicistiche e affrettate accuse di tradimento della causa socialista. L’oggetto della critica in questione è la necessaria evoluzione (5) del “socialismo classico”, per intenderci quello adottato in modo fallimentare (in termini di sopravvivenza) dall’URSS e dai paesi dell’Europa dell’Est (6), in “socialismo di mercato”, andatosi sviluppando appunto in Vietnam. Lo stesso fenomeno che, come è maggiormente noto, ha analogamente investito la vicina Cina sotto l’impulso di Deng Xiaoping, se pur con differenze non trascurabili (che non possono trovare spazio in questo articolo). Si tratta insomma di una linea di sviluppo economico diversificata che lascia ampio margine di operatività all’iniziativa privata e unisce ad essa l’apertura del mercato all’investimento estero. Muovendo dalla constatazione che l’economia di mercato pura e la sua “mano invisibile” non possono coniugarsi con lo sviluppo sociale, questo approccio strutturale ha caratterizzato il costituirsi, per così dire, di una sorta di economia mista, un’economia di mercato orientata cioè al socialismo, con la ferma permanenza al potere del Partito comunista e di uno Stato regolatore. Dove quest’ultimo continua a tenere in mano “le grandi imprese industriali, il trasporto e il credito”, in modo che questi non servano “gli interessi di” un’eventuale “borghesia monopolistica, ma gli interessi dei lavoratori” (6). All’insegna dell’efficienza economica per migliorare le condizioni di vita della popolazione. D'altronde, è lo stesso Lenin, nei suoi scritti del periodo della NEP (7), a incitare all’“aumento della produttività”, al “risveglio della vita economica”, senza la totale demolizione dell’ordine vecchio dell’economia sociale, del commercio, delle piccole imprese. Del capitalismo. “Impadronendosene con prudenza, gradualmente”, e “sottomettendolo alla regolamentazione dello stato”. Lenin andò così a sperimentare un nuovo e commisto metodo di crescita sul quale né Marx né Engels avevano elaborato una riflessione sistematica, dal momento che, secondo i due filosofi, il socialismo richiedeva un alto livello di sviluppo delle forze produttive e della ricchezza sociale per evitare la socializzazione della sola miseria. Non avevano cioè previsto l’eventualità e le problematiche connesse di una transizione al socialismo che prendesse congedo da una situazione di forte arretratezza, come era per l’appunto quella della Russia dei primi del ‘900.
Ma se da un lato Lenin sosteneva a spada tratta la NEP, dall’altro egli “era uno statista troppo lucido per nascondersi i pericoli di restaurazione capitalistica insiti in tale politica; e, ovviamente, tali pericoli sono ben presenti in Cina e in Vietnam”. Ma d’altra parte sapeva, e oggi possiamo confermarlo, che “rallentando lo sviluppo economico ed erodendo la base di consenso del Partito comunista, aggravando il ritardo rispetto all’Occidente e accentuando l’aggressività dell’imperialismo USA, il ripiegamento corporativo della classe operaia e delle masse popolari avrebbero reso inevitabile la sconfitta”. Tanto che oggi, “ci si può chiedere se non abbia giocato un ruolo rilevante nel crollo dell’URSS la fine precipitosa della NEP o la sua mancata riproposizione” (8).
Fu così che il Vietnam, per sopravvivere e allo stesso tempo avanzare sul piano strutturale e sociale, iniziò la sua peculiare fase di transizione al socialismo. Una transizione che si prospetta tanto lunga quanto meno la società del paese in cui si attua è sviluppata.
Ma vediamo nello specifico che risultati ha prodotto il “socialismo di mercato” in Vietnam.
Dall’ottimo studio analitico condotto da Alberto Gabriele, scritto per L’ernesto del 5/2003, risulta che il tasso di povertà assoluta passa dal 70% a metà degli anni ’80 al 29% nel 2002; che l’economia si è sviluppata a ritmi crescenti fino a raggiungere un tasso di crescita medio superiore all’8% all’anno. “Un risultato quasi unico”, commenta Gabriele, “e paragonabile solo alla Cina, nella storia della lotta alla povertà estrema nei paesi del Sud del mondo”. Anche gli indicatori sociali sono migliorati, compresi quelli relativi alla salute: l’indice di sviluppo umano in campo sanitario, stimato dall’UNDP (Human Development Report 2003), è passato da 0.583 a metà degli anni ’80 a 0.688 nel 2002.
Tuttavia, se si vuole condurre un’analisi completa, non possiamo nasconderci dietro questi considerevoli successi per non vedere alcuni effetti negativi. Infatti, come era prevedibile, anche in Vietnam, come in Cina, il “socialismo di mercato” ha comportato un aumento delle differenze di reddito e delle disuguaglianze tra i cittadini. Ma, sempre Gabriele, ci mostra come non si può parlare di un aumento complessivo della ricchezza del paese associato solo ad una stretta minoranza. E lo fa attraverso l’analisi dettagliata della mortalità infantile, uno degli indicatori basici di sviluppo umano. Si nota che, già nel 1998, la mortalità infantile media era scesa parecchio rispetto ai valori del 1993. Ma, suddividendo la società in cinque quintili, cioè in cinque fasce di reddito (nonostante le differenze sociali siano piccole) , si osserva che, mentre nel ‘93 non vi erano differenze importanti tra un quintile e l’altro, nel ‘98 la mortalità infantile era rimasta invariata nel quintile più povero, ed era stata più bassa in quello più ricco. E questo fatto così tanto capitalista e così poco socialista non può certo non suscitarci un senso di profonda ingiustizia: perché mai la vita di un bambino dovrebbe dipendere dalla capacità dei suoi genitori di far soldi? Perciò al buon risultato della diminuzione media della mortalità infantile si deve accompagnare, volendo generalizzare, la constatazione che in Vietnam un quinto della popolazione non gode, anche se solo in termini relativi, dei risultati dello sviluppo economico. Ma se da una parte vediamo come tale sviluppo comporta un aumento delle disuguaglianze, specie in una società come quella vietnamita che era fino a un attimo prima molto egualitaria, dall’altra sappiamo che l’accelerazione dello sviluppo economico è necessario per non condannare la popolazione alla povertà e per allontanare il conseguente rischio di essere fagocitata dall’imperialismo. Infatti se si verificasse questa sciagurata ipotesi la società suddivisa in 4/5 che godono dei frutti dello sviluppo e in 1/5 che non vede alcun miglioramento in termini relativi della sua situazione si risolverebbe presto in una società che assisterebbe ineluttabilmente, per così dire, all’inversione delle parti, a tutto vantaggio di quella più piccola. Così oggi possiamo dire che in Vietnam il miglioramento del tenore di vita è appannaggio della gran parte della popolazione e non di una minoranza di privilegiati, come accadeva invece in passato. Quella che è andata costituendosi è dunque una “società dei 4/5”, dove il quintile restante, quello più svantaggiato, comprende soprattutto quei “contadini che vivono in zone montagnose isolate, molti tra i quali appartengono a minoranze etniche”, e che per questo sono difficilmente integrabili nella vita sociale ed economica del paese.
Volendo proseguire la nostra disamina degli aspetti sfavorevoli non possiamo eludere quella che è, a mio avviso, la maggiore carenza del Vietnam e cioè , analogamente all’esperienza cinese, la scarsa socializzazione dei servizi pubblici, primo tra tutti la sanità. Qui infatti gli eccessivi spazi lasciati al mercato e agli operatori privati “è stato quasi certamente più negativo che positivo per le fasce più povere della popolazione”.
Ad ogni buon conto, le dilaganti, seppur modeste, disuguaglianze sociali e queste carenze del servizio sanitario, come spiegato precedentemente, rientrano comunque in un quadro generale positivo (non solo sul piano economico ma complessivamente anche su quello sociale) che ha visto crescere “la produzione di generi alimentari dalle 17,5 milioni di tonnellate del 1987 alle 39 milioni del 2004; che ha visto aumentare la quota industriale del PIL dal 29% del 1986 al 40% del 2003. Che spende “circa il 25% del bilancio nazionale […] per programmi sociali con l’obbiettivo di assistere i poveri e gli svantaggiati della società” (1).
In più si deve aggiungere, a scanso di equivoci, che l’attività imprenditoriale non vietnamita resta comunque vincolata e seguita dallo stato nell’ interesse dell’ambiente e dei cittadini (9).
In questo modo, la strada adottata dal Vietnam mostra che la sua transizione ad una forma più avanzata di socialismo, oltre che auspicabile, è possibile. E il “socialismo di mercato”, per quanto non se ne possa ancora dare una definizione esaustiva e per quanto sia ancora prematuro analizzarne completamente gli esiti, si sta rivelando, nella pratica, l’unica via di sopravvivenza e sviluppo di questo come di altri paesi socialisti.
Come direbbe Losurdo, il Vietnam ha appreso dall’esperienza storica che la transizione al socialismo deve seguire questo cammino difficile, non privo di pericoli ma necessario. D'altra parte, è la teoria marxista della conoscenza, ovvero il materialismo dialettico della conoscenza, a dirci che “la prima fase nell’intero processo della conoscenza, è la fase del passaggio dalla materia, oggettiva, allo spirito, soggettivo, dall’essere al pensiero. In questa fase […] non è ancora possibile determinare se il pensiero (che include teorie, politica, piani e metodi) sia o no giusto. Segue la seconda fase del processo della conoscenza, la fase del passaggio dallo spirito alla materia, dal pensiero all’essere, in cui si applica alla pratica sociale la conoscenza acquisita durante la prima fase per vedere se le teorie, la politica, i piani e i metodi danno i risultati previsti. In generale è giusto ciò che riesce, sbagliato ciò che fallisce” (10). In altre parole quello che sintetizza la nota triade (di derivazione hegeliana) prassi – teoria – prassi. “Apprendimento”, dunque, e non tradimento come invece si sente dire oggi da molti comunisti, e come avrebbe gridato Trockij (vedi “La rivoluzione tradita”) e compagni in preda al peggior dogmatismo acritico, cieco. E puerile, direbbe Lenin incitando a prendere le distanze da questo dottrinarismo infantile di sinistra: “sbaglia inevitabilmente chiunque si metta in testa di dedurre la tattica del proletariato rivoluzionario da principi come […] la negazione di qualsiasi compromesso e di qualsiasi stazione intermadia. […] Per avviarci più sicuri e più saldi alla vittoria ci manca una sola cosa: e cioè che tutti i comunisti di tutti i paesi acquistino la coscienza vasta e profonda della necessità di essere più possibile flessibili nella loro tattica” (11). (Ed è qui escluso ogni riferimento all’opportunistico gradualismo di stampo socialdemocratico o socialiberale).

Concludendo, a chi sostiene che il comunismo sia ormai anacronistico, superato, defunto, non più proponibile, da museo archeologico, ricordo che “partiti comunisti con basi di massa operano in aree del mondo che abbracciano più della metà della popolazione mondiale” (12); che l’Urss e i paesi dell’Europa dell’Est rappresentavano, in termini di popolazione, solo una piccola parte di quei paesi che hanno tentato di costruire il socialismo nel ‘900. E che la maggior parte di questi, nonostante le intimidazioni, le minacce, gli embarghi, gli attentati terroristici e le operazioni di guerra, sono tutt’ora in vita. Basti pensare che solo in Cina risiede un quarto della popolazione mondiale e, proprio per questo e grazie alla sua nota crescita strutturale, nell’intera storia del genere umano non si ha mai assistito ad una così grande trasformazione economica e ad una così grande riduzione della povertà, come ha ricordato recentemente anche il Nobel per l’economia Stiglitz (che di certo non è comunista). Precisamente, su circa 1 miliardo e 800 milioni di esseri umani che nel secolo scorso hanno preso la strada del socialismo, 1 miliardo e 500 milioni ci stanno ancora provando.
E i vietnamiti sono tra questi.

Leonardo Pegoraro




NOTE


(1) da Giovani E Comunisti -numero 2- dal Vietnam al Venezuela: il socialismo via Praticabile di Tony Pecinovsky del 9/2005
(2) da Indipendenza, ricostruzione, sviluppo: la via Vietnamita di Enrico Penati su L’ernesto del 2/2000
(3) Il manuale datato 1963 è stato usato dalla CIA (fino alla stesura della sua versione aggiornata nel 1983: lo “Houman Resource Exploitation Training Manual”) presso la “The School of the Americas Watch” situata a Panama, dove i soldati venivano istruiti per carpire informazioni utili ai nemici. Tra gli allievi si annoverano alcuni tra i personaggi più sanguinari dell’America centro-meridionale, come Manuel Noriega, Omar Torrijos, Leopoldo Galtieri, Roberto Eduardo Viola, Hgo Banzer Suarez. Questi metodi sono poi stati utilizzati anche nelle operazioni di intelligence e militari più recenti che noi tutti conosciamo.
(4) Il programma Phoenix è stato creato per contribuire alla “neutralizzazione” dei Vietcong insorti. Ma esso, come prova lo studio apparso in sintesi in un articolo del Manifesto del 22/06/2006 di Kalyvas e Kocher, si rivelò, oltre che deplorevole, inutile; proprio come sono inefficaci gli abusi, perpetrati sempre dagli USA, nelle guerre più recenti. In Iraq, ad esempio, secondo lo stesso studio, il 70-80% dei prigionieri è stato arrestato per errore e gli interrogatori di Abu Ghraib hanno prodotto informazioni di intelligence trascurabili.
(5) Con necessaria evoluzione intendo affermare che in caso contrario, come ci ha mostrato la storia, il paese andrebbe incontro alla disfatta. L’esperienza insegna cioè che nella lunga fase di transizione al socialismo devono necessariamente convivere elementi di capitalismo e di socialismo; e il socialismo vince quando i secondi prevalgono completamente sui primi.
(6) In realtà Varga, economista ungherese e uomo di fiducia di Stalin, scrive a proposito dei paesi dell’Est europeo: In questi stati “esiste il sistema della proprietà privata sui mezzi di produzione; ma le grandi imprese industriali, il trasporto e il credito sono nelle mani dello stato e lo stato stesso e il suo apparato di repressione non servono gli interessi della borghesia monopolistica, ma gli interessi dei lavoratori”[…] “Così la struttura sociale negli Stati democratici di nuovo tipo non è la struttura socialista, ma una nuova forma originale di transizione. Le contraddizioni tra le forze produttive e i rapporti di produzione si attenuano man mano che aumenta il peso specifico del settore socialista”. Da Che cosa è la democrazia di nuovo tipo su Rinascita 6/1947.
(7) La NEP prese avvio nel 1921 e durò per tutti gli anni venti. Dopo la rigida centralizzazione del “comunismo di guerra” si introdusse così questa nuova politica economica che si configurava come una sorta di economia mista. Nonostante la NEP avesse consentito di innestare un circolo virtuoso, di raggiungere il risanamento finanziario e la fine dell’inflazione, l’opposizione di estrema sinistra guidata da Trockij, non volendone riconoscere l’efficacia, si mosse contro di essa, definendola, per ragioni puramente dogmatiche, un tradimento della causa proletaria.
(8) da Teoria della rivoluzione e teoria del partito in Lenin di Domenico Losurdo su L’ernesto del 4/2002.
(9) “…nei settori del petrolio, del gas naturale, dei minerali rari e preziosi, della costruzione di infrastrutture per servire le zone industriali è esclusa l’impresa completamente estera, così come per la produzione di cemento, ferro e acciaio, per la riforestazione e le piantagioni, la produzione di esplosivi industriali. E sono stati studiati anche centinaia di casi specifici: per esempio per quanto riguarda la produzione e la lavorazione del latte, di oli vegetali, di zucchero e di legname il relativo progetto dell’investitore estero può essere approvato solo se contiene una parte relativa allo sviluppo delle fonti di materia prima.” Da Indipendenza, ricostruzione, sviluppo: la via vietnamita di Enrico Penati su L’ernesto del 2/2000.
(10) da Da dove provengono le idee giuste? di Mao Tse-Tung, 1963.
(11) da L’estremismo, malattia infantile del comunismo di Lenin,1920 pp. 143-163
(12) Tesi 2.10. Dalle tesi congressuali di maggioranza del II congresso del PRC del 1994.





Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno.
Leggendo Petrarca: l'exercitus proprius e il dualismo etica-politica.


Vale la pena, quando si ha a che fare con un grande maestro della scrittura quale Petrarca, spendere qualche breve parola intorno all'ambito formale della sua poesia, quand'anche lo scopo della sua "chiamata in causa", sia, come in questo caso, tutt'altro che di mero interesse tecnicistico.
Italia mia costituisce una delle canzoni più lunghe di tutto Il Canzoniere. Essa è strutturata in sette strofe costituite da sedici versi ciascuna dei quali nove sono endecasillabi e sette sono settenari. Lo schema delle rime è AbA, BaC, cDEeDdfGfG. La canzone si apre con un vocativo che rafforza la personificazione dell’Italia. Questa è infatti elevata a rango di persona umana, tanto che i problemi politici vengono presentati come lancinanti ferite (“piaghe mortali”) che ne straziano “il bel corpo”. I tre fiumi elencati dal poeta stanno ad indicare per sineddoche l’intera penisola e più precisamente tutti gli abitanti nel suo complesso. La personificazione iniziale dell’Italia rispunta fuori al verso 38 dove con una punta di antropomorfismo, per descrivere la corruzione politica di cui essa è impregnata, il poeta presenta la penisola come un "corpo" ammalato di "scabbia". Al verso 20 le "pellegrine spade" stanno ad indicare per metonimia le truppe straniere. Per il resto la canzone è radicalmente intessuta di metafore, che ne costituiscono la figura retorica dominante: il "diluvio" del verso 28 sta per milizie straniere; la "scabbia" del già citato trentottesimo verso sta, come abbiam detto, per corruzione; la gabbia del trentanovesimo è l’Italia; i "venti" del 105 sono le forze…e queste per citarne alcune. Ma la peculiarità di questa canzone non risiede nella sua struttura metrico-stilistica - e recheremmo offesa al Petrarca stesso (il quale pur celebrando il culto dell'eloquenza non si abbandona mai al culto della pura forma)
[1] tanto nel non considerare l'esistenza di tale sfera quanto nell'esaurire all'interno di quest'ambito un'intera canzone - bensì nella materia affrontata, che si trova ad essere in netta cesura rispetto alla dominante dell’opera. Si tratta infatti della poesia più impegnata tra quelle presenti nel poema. Petrarca s’immerge improvvisamente e alquanto inaspettatamente in una delle problematiche politiche più scottanti del suo tempo. «Una duttile intelligenza storica e politica lo porta… - al di fuori degli astratti schemi medioevali – a farsi interprete della mobile realtà»[2] contemporanea. In questa poesia, lungi dal tema della passione amorosa del desiderio e dei turbamenti esistenziali, Petrarca si getta con fermezza in una lapidaria critica nei confronti dei signori d’Italia e del suo particolarismo “che divide e mette gli uni contro gli altri sovrani e popoli appartenenti ad una stessa tradizione e a una stessa cultura”.2 Questa situazione scaturisce, altresì, nella presenza sempre più massiccia in Italia, di milizie straniere, che lascia presagire al Petrarca una degenerazione dagli esiti politicamente catastrofici. Il chiasmo del verso 40 esprime l’incompatibilità esistente tra due popoli radicalmente diversi (fiere selvagge et mansuete gregge), e non tanto per la considerevole differenza culturale che li divide, quanto bensì per un’idiosincrasia tutta qualitativa che si muove a discapito del popolo italiano, il miglior, il quale rischia immancabilmente di venir fagocitato da un rozzo e insignificante popol senza legge.
Ma già dalla stanza precedente Petrarca si introduce in un discorso politico molto delicato e di portata ben più vasta del proprio presente storico, che giungerà fino al Rinascimento ed attraverserà gli animi dei più importanti specialisti teorici della politica, dal Guicciardini al Machiavelli.
La polemica nei confronti dei potenti d’Italia viene svolta, nella seconda strofa in forma interrogativa: la prima domanda (che fan qui tante pellegrine spade?) «contiene un’accusa: quella di aver condotto soldati stranieri sul territorio nazionale», la seconda domanda (perché ‘l verde terreno del barbarico sangue si depinga?), «contiene un riferimento ironico alle speranze di trovare fedeltà in soldati prezzolati, quasi dicesse: "sperate davvero che soldati stranieri siano disposti a versare il loro sangue per i vostri interessi?", alludendo alla tendenza dei soldati mercenari a combattere nel proprio esclusivo interesse, pronti a cambiare fronte e a depredare i territori dei loro stessi pagatori».
[3]
Operando un salto diacronico di circa due secoli ritroviamo sulla stessa lunghezza d’onda del Petrarca e in contrapposizione col Guicciardini, la medesima problematica politica affrontata rispettivamente nel dodicesimo e tredicesimo capitolo del Principe di Machiavelli:

Le mercenarie e ausiliare sono inutile e pericolose: e, se uno tiene lo stato suo fondato in sulle arme mercenarie, non starà mai fermo né sicuro; perché le sono disunite, ambiziose, sanza disciplina, infedele; gagliarde fra gli amici, tra e nimici vile; non timore di Dio, non fede con gli uomini; e tanto si differisce la ruina, quanto si differisce lo assalto; e nella pace se’ spogliato da loro, nella guerra da’ nimici. La cagione di questo è, che le non hanno altro amore né altra cagione che le tenga in campo che uno poco di stipendio, il quale non è sufficiente a fare che voglino morire per te. Voglino bene esser tua soldati mentre che tu non fai guerr, ma, come la guerra viene, o fuggirsi o andarsene. […]
L’armi ausiliare, … sono l’altre arme inutili. Queste arme possono essere utile e buone per loro medesime, ma sono per chi le chiama quasi sempre dannose; perché, perdendo, rimani disfatto, vincendo, resti loro prigione.
[4]

Questa spinta da parte del Petrarca e del Machiavelli ad utilizzare le armi proprie piuttosto che le mercenarie o le ausiliarie può assumere una valenza straordinariamente attuale. Il primo motivo è quello, per dirla col Gramsci, di far irrompere «simultaneamente » le grandi masse «nella vita politica»
[5], dalla quale risultano sempre più assenti, e dall’altra parte, quello di far in modo di superare dialetticamente quella fenditura esistente tra volontà e necessità: una guerra può essere in un certo qual modo compresa e aggiungerei giustificata, quando la si deve fare e non quando la si vuole fare. Con tale separazione e assenteismo delle grandi masse, essa finisce per diventare uno strumento alle dipendenze degli interessi capitalistico-oligarchici, e non di espressione delle volontà collettive. La guerra del Vietnam, che ha visto l'utilizzo dell'esercito proprio da entrambe le parti, si è dovuta concludere con la sconfitta dell’esercito più potente da parte di quello più “straccione” non appena il popolo americano comprese che il gioco non valeva la candela. Le quattro guerre che si sono succedute negli ultimi dodici anni, Iraq, Kossovo, Afghanistan, Iraq, hanno sancito il trionfo della guerra come strumento indiscusso ed esclusivo dei vertici di potere, i quali hanno intrapreso i loro piani oligarchici, perpetuamente fiancheggiati dall’assenteismo delle masse. Laddove le grandi masse non sono partecipi nella vita politica, laddove esiste una separazione netta tra sovranità e popolo, laddove quindi il potere ha alle proprie dipendenze eserciti mercenari o ausiliari, la distanza tra esso e il popolo, tra il potere e i cittadini diventa incolmabile, ed è in tali scenari – ci ricorda Kant- che «la guerra diventa la cosa più facile del mondo, perché il sovrano non è membro dello stato, ma ne è il proprietario, e nulla ha da rimettere a causa della guerra dei suoi banchetti, delle sue cacce delle sue case di diporto, delle sue feste di Corte ecc., e può quindi dichiarare la guerra come una specie di partita di piacere, per cause insignificanti, lasciando, per salvare le apparenze, al corpo diplomatico, pronto a ciò in ogni tempo, il compito di giustificarla».[6]
Viceversa, con un esercito proprio, popolare, «dovendo far ricadere sopra di sé tutte le calamità della guerra (cioè combattere personalmente, pagarne del proprio le spese, riparare a forza di stenti le rovine che la guerra lascia dietro di sé e da ultimo per colmo dei mali, assumersi ancora un carico di debiti, che per sempre nuove guerre renderà dura, la pace stessa e non potrà mai estinguersi), essi rifletteranno a lungo prima di iniziare un così cattivo gioco».
[7]
La guerra in tal modo scoppierà e verrà assiduamente portata avanti solo ed esclusivamente se sarà la necessità concreta a richiederlo (come ad esempio la resistenza condotta nei confronti di un’oppressione straniera o la rivolta di un popolo ridotto alla fame o schiavizzato, contro i vertici dello sfruttamento), unico caso in cui essa può, per l'appunto, trovare giustificazioni.
Ma dopo questo parallelismo con l’attualità, torniamo pure al Petrarca:un altro tema molto interessante presente nella canzone è quello del rapporto tra etica e politica, due categorie tradizionalmente contrapposte che in questo caso giungono ad assemblarsi fino a diventare un’unica sostanza e materia: “la causa per la quale ci si batte non è solo presentata come la più opportuna ma anche come la più giusta, determinandosi così una coincidenza tra bene politico e bene morale”. 2
Come che sia, questa collimazione tra le due categorie, la ritroveremo altresì in un autore come Leopardi, e particolarmente nella sua concezione politica sviluppatasi man mano, parallelamente al suo debole per la struttura sociale (schiavitù esclusa) delle poleis greche e romane rispettivamente prima delle guerre persiane e puniche.

…uno stato dove ogni azione pubblica degl’individui è sottoposta al giudizio, e fatta sotto gli occhi della moltitudine, giudice…per lo più necessariamente giusto; uno stato dove per conseguenza, la virtù e il merito non poteva mancar di premio; uno stato anzi dove era d’interesse del popolo il premiare i meritevoli…uno stato del quale ciascuno sente di far parte, e al quale ciascuno è affezionato, e interessato dal proprio egoismo.
[8]

L’operare per il bene dello Stato, l’altruismo diventano azioni e categorie che fuoriescono dalla sfera dell’etica per farsi tutt’uno con quella della politica. Il bene comune non viene qui dato come semplice perseguimento della legge morale, ma bensì come ricerca del bene individuale in una perfetta identificazione tra la parte e il tutto, tra il cittadino e la comunità e, consequenzialmente, tra egoismo ed altruismo.
Da questo punto di vista il Petrarca anticipa Leopardi, presentando la risoluzione dell’assetto socio-politico in termini religiosi e laici, facendo coincidere ciò che è provvidenzialmente e moralmente giusto con ciò che è metodicamente più opportuno e necessario. Vi è insomma un tentativo d superare il dualismo etica-politica verso la sua giusta risoluzione: verso la comprensione cioè che, ben lungi dall'essere etica e politica due rette parallele che non si incontrano mai o che mai si dovrebbero incontrare, la politica costituisce, volente o nolente, il terreno sul quale una'etica può esistere e realizzarsi, e quindi ogni etica sincera non può non cercare il suo contatto e la sua confluenza nella politica (Machiavelli), ma perde totalmente di significato ogni politica che non si sia posta prima di muovere i suoi passi il problema dell'etica, e quindi ogni politica sincera deve aver, prima di tutto, fatto i suoi conti con l'etica (Kant).
[9]
E tuttavia, è bene precisarlo, ci troviamo ben lungi da quel prototipo "d’intellettuale organico” tanto teorizzato e caldeggiato da Gramsci, né plausibile sarebbe un parallelismo tra Patrarca e Dante riguardante il terreno politico, pur essendovi in entrambi questa idea di superiorità del popolo italiano rispetto alla barbarie straniera. Diversamente da Dante, infatti, il Petrarca – e questa canzone ne è la dimostrazione- «non appare coinvolto nel terreno della lotta politica, ma posto in una dimensione di distacco e di superiorità fatta coincidere direttamente con il bene comune e dichiarata al di sopra delle parti in contesa. La funzione intellettuale è cioè definita ormai, anche davanti al tema politico e civile, come una funzione separata e autonoma».
[10]




Emiliano Alessandroni



Bibliografia

- Francesco Petrarca: "Il Canzoniere" Einaudi
- Raffaele Amaturo: “Petrarca” , Editori Laterza
Antonio Gramsci: “Quaderni del carcere", Einaudi 2001 - Immanuel Kant: “Per la pace perpetua” , Il mulino
- Giacomo Leopardi: “Zibaldone di pensieri” , Garzanti
- A.A.V.V.: “Kant oggi nel bicentenario della Critica della ragion pura”, 1981 Saint Vincent
- Romano Luperini: “La scrittura e l’interpretazione” , vol I AIl medioevo latino e lo sviluppo delle letterature erupee dalle origini al 1380 Palumbo Editore
- Niccolò Machiavelli: “Il Principe” , Sansoni

[1] Cfr. Dotti, 1997, p. 119
[2] Raffaele Amaturo, Petrarca, Laterza
[3] Luperini, 1996, p. 1121
[4] Niccolò Machiavelli, Il Principe, Snsoni
[5] Gramsci, 2001, p. 952
[6] Kant, Per la pace perpetua e altri scritti politici, il mulino

[7] Ivi
[8] Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, Garzanti
[9] Cfr. su ciò Livio Sichirollo: Appunti su Kant oggi in tema di morale, storia e politica in AA.VV., 1981, p. 38
[10] Luperini, 1996, p. 1126


“I Cavalieri”
-Per una rilettura attuale di Aristofane-


«…Già da ragazzo ingannavo i cuochi, dicendo “Guardate, una rondine!”, quelli guardavano e io intanto facevo sparire qualche bel pezzo di carne. […] E riuscivo sempre a farla franca. Se mi vedevano, nascondevo la roba fra le natiche e giuravo sugli dèi. Così un uomo politico vide la mia abilità e disse: “Non c’è dubbio: questo fanciullo governerà il popolo!”»

I Cavalieri (‛Ιππη̃ς, 424 a.C.) costituiscono la più mordace satira politica trasmessa dalla letteratura antica, ed è stupefacente quanto siano attualizzabili gran parte dei cardini su cui si snoda, sapientemente, questa critica, la quale sotto la parvenza di una grandiosa buffonata, lascia ancor oggi i segni di una tragica amarezza; in ogni caso, come l’intera produzione aristofanesca, essa è anche la prova di quanto notevole fosse la παρρησία, la libertà di espressione riconosciuta alla cultura ateniese, una libertà che rimane un unicum nella storia del mondo antico, in Grecia come altrove.
-Figura 3 - Busto di Aristofane-In questa sede ci asterremo dal tracciare qualsiasi parallelo con la realtà contemporanea , italica o globale, lasciando che nebulosamente ogni riferimento a fatti o persone trasudi da sé, per mezzo di una disamina (certo sommaria...) della commedia e delle istanze che la muovono.
Questa opera, senza mezzi termini, è adibita alla demolizione della figura di Cleone (anche qui torna il tema del φαρμακός, e della necessità che venga sconfitto e scacciato), che nel V sec. a.C. era un fervido fautore della guerra a oltranza contro Sparta e che qui viene fronteggiato da un mirabilmente grottesco Salsicciaio dalla spaventevole e triviale ignoranza, il quale “tritando e insaccando” gli affari politici, come fa con le salsicce, riuscirà ad avere la meglio sul rivale. In Aristofane gli “oppositori” sono sempre grottescamente connotati ed appartengono alla categoria dei “cialtroni” (α̉λαζόνες) o dei “furfanti” (πονηροί) : il Salsicciaio può ben annoverarsi a pieno titolo in entrambe…
Tutta la commedia è innervata da una acuta analisi dei meccanismi democratici e delle aberrazioni ad essi intrinseche, e della labilità della psicologia del popolo [cfr. fra le altre, alla Lisistrata (Λυσιστράτη, 411 a.C.)]: soprattutto è disarmante notare la facilità con cui quest’ultimo muti opinione e sui mezzi bassamente demagogici utilizzati a questo fine, ovvero alla pura manipolazione dell’opinione pubblica; da ciò ne deriva anche una malinconica per quanto cinica presa di coscienza sulla penosità retrograda di una civiltà che politicamente si lascia irretire da certuni “manipolatori”.
Pertanto viene messo in scena il lato della politica nutrito di inganni, mirante al raggiungimento del consenso con ogni mezzo, anche travolgendo il popolo (e soverchiando i rivali...) con la semplice forza di una vacua oratoria solenne [....Come non pensare a colui che usava apparire –quasi un’epifania divina...– dai balconi e che fece di quest’arma un tratto peculiare??...Chissà, forse a Predappio il caldo lo costrinse fin dalla tenera età a questa desueta abitudine....].

Ancora più assurdo ­– e ad ulteriore beffarda riprova di quanto messo in scena da Aristofane riguardo la mutevolezza e labilità di pensiero, il quale si lascia ammaliare da suggestioni di vario tipo – , il popolo con unanime plauso decretò un successo a dir poco glorioso a questa commedia [ non è questo il dato che ci stupisce, ma quanto segue...]; ebbene, dopo pochi mesi (siamo nel 424 a.C.) fu chiamato alle urne, e, neanche a dirlo, elesse Cleone stratego, affidandogli la conduzione della guerra....

Nicola Serafini







ANTIGONE
(ΑΝΤΙΓΟΝΗ)


CREONTE (ad Antigone) Dico a te, sì a te che abbassi il capo: neghi o ammetti di aver compiuto il fatto?
ANTIGONE Sì, sono stata io, non lo nego.
CREONTE […] Quanto a te, dimmi semplicemente, e senza giri di frase: conoscevi l’editto che vietava proprio ciò che hai fatto?
ANTIGONE Sì, lo conoscevo. E come potevo ignorarlo? Era pubblico.
CREONTE Eppure hai osato trasgredire questa norma?
ANTIGONE Sì, perché questo editto non Zeus proclamò per me, né Dike[1], che abita con gli dèi sotterranei. No, essi, non hanno sancito per gli uomini queste leggi; […] Io non potevo, per paura di un uomo arrogante, attirarmi il castigo degli dèi. Sapevo bene –cosa credi?– che la morte mi attende, anche senza i tuoi editti. Ma se devo morire prima del tempo io lo dichiaro un guadagno: chi, come me, vive immerso in tanti dolori,non ricava forse un guadagno a morire? Affrontare questa fine è per me un dolore da nulla; […] E se ti sembra che mi comporto come una pazza, forse è pazzo chi di pazzia mi accusa.
[…]
CREONTE […] E un piccolo morso, si sa, doma i cavalli più focosi: non si può permettere di fare il superbo chi è in mano altrui. […] No, sia pure figlia di mia sorella o ancora più legata nel sangue[2] fra quanti onorano Zeus all’altare della mia casa: né costei né sua sorella[3] sfuggiranno a morte amarissima; […] Sono soliti tradirsi da sé, ancor prima di essere scoperti, quanti ordiscono nell’ombra trame delittuose. E ancor più detesto chi, sorpreso in flagrante, pretende di abbellire il suo crimine.
ANTIGONE E allora cos’altro vuoi più che avermi in tuo possesso e uccidermi?
CREONTE Nient’altro: se ho questo, ho tutto.
ANTIGONE Che aspetti dunque? Non una delle tue parole mi è sopportabile, né mai lo sia: del resto anche le mie parole sono fatte per dispiacerti. […] E tutti costoro[4] mostrerebbero di apprezzare il mio gesto, se la paura non sbarrasse loro la bocca. Ma fra i suoi molti privilegi il potere possiede anche quello di fare e dire ciò che vuole.
CREONTE Tu sola, fra tutti i Tebani, la pensi così.
ANTIGONE No, la pensano come me, ma frenano la lingua per compiacerti.
CREONTE E tu non ti vergogni a distinguerti da loro?
ANTIGONE Non è una vergogna onorare i consanguinei.
[…]
CREONTE Ma i giusti non devono ottenere gli stessi onori dei criminali.
ANTIGONE Chi può dire se fra i morti questa legge è santa?
CREONTE Il nemico non è mai un amico, neppure da morto.
ANTIGONE Io sono fatta per condividere l’amore, non l’odio[5].
CREONTE E allora, se vuoi amare, scendi sotto terra e ama i morti. Io, finché vivo, non prenderò ordini da una donna.
[ vv. 431-525]
U
-Figura 4 - Busto di Sofocle-no stralcio di appena novanta versi, eppure affiorano tutte le tematiche su cui s’impernia l’intera Antigone (̕Αντιγόνη, 442 a.C.) di Sofocle: si riesce a discernere notevolmente la psicologia e l’indole dei personaggi, il pugnace sussiego di Creonte come la devozione di Antigone, e questo è indice di grandezza non comune, poiché significa che ogni verso recitato da un personaggio è sì un tassello che compone il più largo mosaico della sua psicologia, ma in quanto tassello unitario deve saper essere eloquente, e lo fa, anche da solo, e Sofocle ce ne dà una gloriosa dimostrazione.

Questa tragedia offre lo spunto per analisi sterminate, nei più varii ambiti, dal conflitto fra legge e cittadino, alla devozione verso la famiglia, come anche alla devozione alla πόλις, per non parlare dell’universo psicologico su cui si muovono le figure, che girano tutte attorno all’eroina che giganteggia su tutti gli altri personaggi.
Ma in questa sede, deliberatamente percorriamo una via alquanto imbattuta, in quanto il testo, e solo questo, come è giusto ogni tanto che sia, parlerà con la propria voce secolare, nonostante sia qui empiamente e largamente mutilo.
Ugualmente intenzionale è stato l’esimerci dall’offrire una panoramica precedente degli avvenimenti, in quanto è nostra intenzione vertere ogni energia a questi soli sparuti versi, accuratamente scelti; pertanto lo stralcio è stato posto all’inizio, quando il lettore non ha ancora assimilato gli indirizzi che chi scrive vuole che egli percorra, quando non è il gusto individuale né l’opinione politica a far giudicare, poiché ancora non si è avuto modo di crearsi un’opinione.
Per questo motivo è ora invece opportuno spendere qualche esile parola, per poter rileggere il testo una seconda volta (e chi scrive esorta animosamente il lettore a farlo), ma questa volta con cognizione di causa, e confrontare l’opinione primiera con la seconda.

Edipo, cieco ed esule per le campagne, supplice e ormai prossimo alla morte, maledice i figli Eteocle e Polinice: essi infatti si uccideranno a vicenda. Il nuovo re, Creonte, fratello di Giocasta, decreta che Polinice debba rimanere insepolto, pena la morte. Ma Antigone è fermamente risoluta a donare degna sepoltura al fratello, come impongono i doveri di pietà familiare, e così opera. Quando scopre l’accaduto, Creonte ordina che il corpo venga dissepolto e pone il luogo sotto sorveglianza, così che quando Antigone si reca nuovamente a donare le esequie al fratello viene colta in flagrante da una guardia che la conduce dal sovrano.

Questi, per sommissimi capi, gli antefatti al brano sopra-riportato nella traduzione di E.Cetrangolo.
L’azione di Antigone assume un importante valore sociale, oltre che religioso: infatti gli insepolti (άταφοι) erano condannati a vagare in eterno come inquieti fantasmi (ἐίδωλον), ma il lutto aveva anche la valenza sociale di riportare l’anima del defunto in seno alla famiglia da cui era nato lo stesso. Ella conosce l’editto ma pospone la propria vita all’onore e all’affetto familiare, alle proprie convinzioni, alla propria fede inesplebile, alla cieca pertinacia che la muove e che la rende certa che quella legge sia sbagliata e non necessiti di essere osservata pedissequamente.
La sua ribellione si rivolge anche alla famiglia, si scaglia contro l’autorità in senso lato, contro il sistema patriarcale in cui la donna è tenuta a sottostare tacitamente allo strapotere del capofamiglia: Antigone trascende il vincolo della scala sociale, si “scrolla” di dosso ogni costrizione e affronta a viso aperto la sua sorte, in quanto quest’ultima è figlia delle sue azioni, le quali a loro volta non sono che il riflesso delle sue più radicate convinzioni.

Si potrebbe andare ben oltre nella interessante esegesi, ma programmaticamente ci asterremo dal farlo, per sottolineare la superiorità del testo a qualsivoglia analisi critica.

- Nicola Serafini -




[1] Solitamente Δίκη siede accanto al solio di Zeus, ma qui Antigone si appella alla Giustizia del mondo dei morti.
[2] Le nozioni di consanguineità tornano quasi ossessivamente nelle parole di Creonte
[3] Ismene, la quarta delle figlie di Edipo e Giocasta (o Epicasta).
[4] [Il coro dei vecchi Tebani presente sulla scena]
[5] La traduzione, per quanto sia sempre impossibile rendere fedelmente dal greco, del celebre ed emblematico verso (v.523: ούτοι συνέχθειν αλλά συμφιλει̃ν έφυν ) secondo chi scrive suonerebbe migliore nel modo: “ Io non vivo per l’odio, ma per l’amore reciproco”